E’arrivata, a Spezia per buona sorte dei soliti potenti locali, l’ennesima nocività industriale e, questa volta potremo dire di livello mondiale. Infatti quello che sbarca nel golfo ligure, come se non bastavano l’ENEL, l’OTO MELARA, il porto e tutte le varie schifezze tecnoindustriali, grazie alla commessa aggiudicata all’azienda A.S.G.Superconductors proprietà della famiglia genovese Malacalza, è qualcosa che va oltre i confini degli stati e ci rende complici, noi presunti antinuclearisti, di un progetto di fusione termonucleare chiamato I.T.E.R., il reattore sperimentale di nuova generazione che verrà realizzato in Francia nel sito di Gadarache. Non è passato un anno, dall’esito positivo al referendum che abrogava la proposta di legge per la costruzione di nuove centrali nucleari sul territorio nazionale e nonostante la vittoria legale ottenuta con tanta partecipazione, pare sia cosa già dimenticata (come del resto è dimenticato anche il quesito sulla privatizzazione dell’acqua). Il problema sembrava risolto, il volere popolare sembrava chiaro a tutti, nessuno voleva continuare sulla via del nucleare e invece, proprio qui nella nostra città, a fianco alle nostre case, davanti ai nostri occhi increduli, si innalzano le mura di quello che sarà un problema in Francia, così come in Italia e in ogni paese che in barba all’opinione pubblica continua a investire  nell’affare del nucleare, portando alle solite conseguenze di sfruttamento e inquinamento delle aree di estrazione, lavorazione, controllo e ovviamente di ricerca bellica.

Il nucleare ci uccide, e non importa che si costruiscano solo componenti che poi andranno a km di distanza…non vi pare?

Cos’è questo nuovo affare italiano?

Nel 2010, a Cadarache nel sud della Francia, sono iniziati i lavori per la costruzione del più grande progetto mondiale, un reattore a fusione termonucleare denominato I.T.E.R. (International Thermonuclear Experimental Reactor) il quale ha l’obiettivo di verificare in 20 anni «La fattibilità scientifica e tecnica della fusione termonucleare come nuova fonte di energia». Al colossale e costosissimo progetto partecipano 34 Paesi che puntano a realizzare nel novembre 2019 il “primo plasma” dell’ I.T.E.R. che è finanziato da Ue, Usa, Giappone, Corea del sud, Cina, India e Russia. Si stima che la sola fase di costruzione dell’ I.T.E.R.  costerà 12,8 miliardi di euro in 10 anni. Il nuovo accordo adottato formalmente dal Consiglio e dal Parlamento europei si basa su: 100 milioni di euro già inclusi nel bilancio 2012 dell’Ue destinati all’ I.T.E.R.;  360 milioni di euro promessi nel bilancio 2013 dell’Ue; 840 milioni di euro provenienti dai maggiori finanziamenti per la competitività per la crescita ed il lavoro: 650 milioni di euro nel 2012 e 109 milioni di euro nel 2013. I soldi per il nucleare I.T.E.R. saranno presi da un taglio di spese per le risorse naturali (450 milioni di euro nel 2011) e dell’amministrazione (390 milioni di euro nel 2011 e 2012). Ed è proprio nel 2010 che l’A.S.G. del gruppo Malacalza, aggiudicandosi una commessa del valore di circa 120milioni di Euro per la fornitura di dieci bobine magnetiche per I.T.E.R., entra in trattativa con la Regione Liguria, il Comune della Spezia e i sindacati per l’acquisto del sito più adatto alla realizzazione dell’impianto, ovvero l’ex area S.Giorgio. Per Davide Malacalza, presidente dell’A.S.G. ‹‹ Lo studio della fusione (termo)nucleare è un campo in cui l’Europa vanta un’eccellenza ››, e agginge ‹‹ chi riuscirà per primo a tradurre sul piano industriale i vantaggi potenziali della fusione nucleare avrà sostanzialmente risolto il problema dell’inquinamento. E’ un business molto distante da quello siderurgico da cui proviene la nostra famiglia, ma estremamente affascinante.

E poi vuol dire guardare davvero al futuro del nostro pianeta ››. Omettendo o ignorando, che il progetto ITER è un esperimento atto a dimostrare la possibilità di accendere un piccolo sole sul nostro pianeta, utilizzando come combustibile il Trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno e che fughe accidentali di Trizio potrebbero avere conseguenze non diverse da quelle prodotte da incidenti nucleari da fissione. In sostanza, un reattore a fusione termonucleare produrrebbe una quantità di radioattività appena inferiore a quella di un reattore a fissione ordinario della stessa potenza. Di tutto ciò pare all’oscuro anche il sindaco della Spezia Massimo Federici, uno che viene dalla sinistra ‘equo-solidale’, dichiarandosi orgoglioso dell’insediamento di questa azienda , così come lo sono la sua giunta e i sindacati (tutti), ovviamente eccitati oltremodo dai risvolti padronali…ops, occupazionali!

Ma questa volta, nemmeno la scusa occupazionale può salvare la faccia a nessuno, visto che dai 130 posti di lavoro concordati coi sindacati in fase di trattativa per gli ex lavoratori Spel si sia passati a 35 assunzioni a tempo determinato della durata massima di 5 anni (questo il tempo necessario per la costruzione delle 10 maxi bobine Winding pack destinate al progetto ITER),  e chissà tra 5 anni cosa deciderà di produrre alle Pianazze il gruppo Malacalza, potenza della siderurgia ligure, visto che attraverso il suo amministratore delegato l’ingegner  Ferruccio Bressani, non fa mistero dell’intenzione di individuare altre aree nell’area spezzina, per poter ampliare le capacità produttive in vista di altre commesse di materiali superconduttivi, perché ‹‹Malacalza vede La Spezia come un punto strategico per la sua attività››, come sicuramente vede strategici per i propri interessi tutti quei lavoratori cassaintegrati della ex Ocean-S.Giorgio, privati dei loro diritti e svenduti da quei sindacati che dovrebbero fare di tutto per garantirglieli…la cosa dovrebbe farci tremare, non ci vuole molto per comprendere quanto schifosa sia questa società, questo sistema sociale, politico, economico, culturale, stanno investendo milioni di Euro per rendere invivibile e nociva la  nostra città, i nostri territori, il nostro golfo e le nostre vite. E se la famiglia genovese guarda agli sviluppi della fusione termonucleare nucleare, la tradizionale frontiera delle centrali a fissione registra segnali vivaci anche da altri versanti della piccola e media industria hi-tech ligure. E’ il caso della Demont di Millesimo (Savona), che si è assicurata una commessa, del valore di 23 milioni, per fornire impianti di condizionamento alla centrale slovacca di Mochowce. O della Termomeccanica di La Spezia, che figura in pole-position per le pompe da destinare alle caldaie delle nuove dieci centrali programmate dal governo indiano. E, ancora, il caso della D’Apollonia, società genovese di ingegneria, che è impegnata in alcune commesse in Romania e Argentina. O della Tecnospamec, anch’essa di Genova, che ha fornito alla General Electric un sistema per pulire le vasche contaminate degli impianti nucleari. Sembra proprio che tutti se ne freghino altamente di qualsiasi esito referendario, dalle università ai centri di ricerca, dalle imprese ai finanziatori (banche in primis), la classe politica tutta, ostinandosi in questo cammino, eppure sanno bene che esistono alternative molto più efficaci, sicure e meno costose come le tecnologie che usano le fonti rinnovabili e quelle che aumentano l’efficienza energetica. A questo punto, dovremmo riflettere su quanto potrebbe pesare il nostro silenzio, la nostra passività di fronte a tale operazione; sin dall’annuncio della commessa, all’accordo tra comune e azienda per il sito, ai mesi di tranquillo lavoro a tale progetto, non si è visto alcun interesse da parte di nessuno, si continua tutti a fare finta di niente. Invece di motivi per alzare la testa ve ne sono molti, per muoversi contro, ostacolare, sabotare, con mille modi per riprendersi quella dignità che giorno dopo giorno viene calpestata da continui soprusi e prepotenze. Basta essere complici di chi produce morte, di chi sfrutta e avvelena in modo scellerato il pianeta e le nostre vite.

di DT

Parlare di sviluppo sostenibile vuol dire pensare ad uno sviluppo che fornisce elementi ecologici, sociali ed opportunità economiche a tutti gli abitanti di una comunità e di quelle a venire, senza creare una minaccia alla vitalità del sistema naturale, urbano e sociale che da queste opportunità dipendono. Ciò significa che le tre dimensioni economiche, sociali ed ambientali sono strettamente correlate, ed ogni intervento di programmazione deve tenere conto delle reciproche interrelazioni. Nel 1983, nel saggio Il declino dell’uomo, Konrad Lorenz scriveva che: “l’espressione “sviluppare un’area” ormai significa spianare, cementificare e poi vendere al miglior offerente”, questa oggigiorno è l’ideologia trasversale degli affaristi e politici di qualsiasi colore politico, delle multinazionali, è il pensiero che corre alle grandi opere, ai bulldozer, al cemento che avanza e soffoca quel poco di natura che ci è rimasto, facendo aumentare, parallelamente al PIL, anche inquinamento e malattie.  L’idea di sviluppo soprattutto negli ultimi decenni, è stata principalmente la crescita economica, la crescita del PIL, ritenendo l’economia la struttura basilare su cui poi sviluppare tutto il resto, ma l’espansione della base economica e tecnologica, che è stata straordinaria, non ha affatto garantito lo sviluppo di tutto il resto (sociale, urbano, etc.), anzi quest’ultimo è stato penalizzato dagli effetti collaterali della crescita economica, che oggi si configura come la principale emergenza del nostro tempo, peraltro inseparabile dalle ripercussioni ambientali che ne derivano. Le ricerche risalenti al 1997 di Robert Costanza, basate sulla raccolta di tutti gli studi sino ad allora pubblicati, dimostrarono che in un anno i 17 servizi degli ecosistemi (dalla regolazione del clima ai cicli idrici, dall’impollinazione alla formazione del suolo ecc.), forniscono servizi il cui valore è quasi il doppio del PIL mondiale (vedi The value of the world’s eco system services and natural capital, Nature, 15 maggio 1997).  Ciò significa che anche dal punto di vista strettamente economico la natura è molto più importante dell’attività umana (anche se potenziata dalla tecnologia), senza scordarsi che la crescita economica sperpera progressivamente il capitale naturale costituito dagli ecosistemi. E’ ormai evidente che le idee-forza della modernità, incentrate sulla crescita, hanno fatto il loro tempo: continuare a seguirle oggi, anche solo per inerzia, avrebbe il sapore dell’irresponsabilità e dell’analfabetismo culturale.  Chi lo dice? Non occorre scomodare nuovamente Robert Costanza, o Serge Latouche sostenitore della Decrescita, è sufficiente citare studi diffusi dalla Commissione Europea. L’economia degli ecosistemi e della biodiversità (2008): è uno studio voluto dall’allora Commissario per l’Ambiente Stavros Dimas, condotto da Pavan Sukhdev (economista indiano e Direttore di TEEB) e da un nutrito gruppo di esperti di levatura internazionale. Lo studio mette in luce che il sistema di calcolo della ricchezza, cioè del PIL, è “vecchia e difettosa”, perché non considera in modo adeguato gli effetti collaterali della crescita, il degrado degli ecosistemi, le catastrofi climatiche ed ambientali e il peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni legate ad economie di sussistenza direttamente a contatto con gli ecosistemi, registrando in modo definitivo lo scollamento tra PIL e benessere, lo studio fa luce sui legami esistenti tra la perdita di biodiversità e la povertà, si propone anche di individuare strategie alternative producendo una tesi economica completa a favore della conservazione degli ecosistemi e della biodiversità.  Nonostante le ricerche di Sukhdev siano legate ad una chiave di lettura economica e per questo criticabile perché penso sia rischioso quantificare il nostro pianeta a livello monetario, credo anche che in questi tempi dove tutti masticano e parlano di economia sia un modo per far comprendere ai più l’importanza degli ecosistemi e che cosa ci sia in gioco.

Più recentemente, nel 2009, la rivista ufficiale della Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea, con la collaborazione della Commissione Sviluppo Sostenibile del Regno Unito, si è spinta a promuovere Prosperità senza crescita di Tim Jackson, un libro che riassume lo stato attuale delle nostre conoscenze sulla crescita economica e che dimostra in modo convincente che la crescita così come viene intesa oggi dovrebbe finire, ovvero che la prosperità per pochi, basata sulla distruzione ecologica e sulla continua ingiustizia sociale, non può stare alla base di una società civilizzata ma che vi è bisogno di un rinnovato senso di prosperità condivisa. Le ricerche di Jackson mostrano che una volta soddisfatti i bisogni primari la felicità delle persone non cresce proporzionalmente al reddito, anzi dimostra che gli effetti positivi di vivere in una nazione ricca diminuiscono e che i vantaggi aggiuntivi in termini di speranza di vita si riducono notevolmente con l’aggravarsi di malattie come quelle dell’apparato respiratorio, l’obesità, le coronaropatie, diabete, ictus, depressione, arrivando alla conclusione che per un futuro realmente prospero bisogna che l’uomo recuperi la profondità e la complessità della propria natura, rivalutando ciò che è stato sacrificato alla logica capitalista e consumistica. Jackson ribadisce che la prosperità è un concetto che va al di là del benessere puramente materiale e che contiene in sé una serie di valori che trascendono il materialismo.

A seguito degli studi e delle considerazioni critiche sopra citate, e di molto altro ancora, è palesemente giunta l’ora di prendere consapevolezza che la crescita così come viene intesa dal sistema in cui viviamo è ormai antieconomica ed antiecologica e sopratutto improponibile come modello di sviluppo da perpetrare.

Da qui ben vengano le ricerche di nuovi stili di vita, incentrati sulla sostenibilità, sui comportamenti virtuosi, sul consumo consapevole, sull’autoproduzione, sul risparmio energetico, sul riciclaggio, sull’agricoltura biologica, sulle energie alternative, etc., perché se non saremo capaci di connettere seriamente l’economia, l’ecologia e il sociale nei nostri modelli di sviluppo sarà veramente difficile fare passi in avanti verso un mondo che non ci si rivolti contro.

“Nessun sottosistema di un sistema finito può crescere all’infinito: è una legge fisica”. Tim Jackson – Prosperità senza crescita , cit. pg. 61.

 

Carrara è una “città” dove lo spazio pubblico viene gestito emettendo ordinanze che impediscono ai bimbi di giocare a pallone nell’unica piazza verde del centro storico (non ci sono parchi giochi), che proibisce il passaggio di cani (anche al guinzaglio) nella stessa piazza; che proibisce di consumare pasti all’aperto in centro (si vuole impedire “l’invasione” dei pericolosi Punkabbestia); una “città” che proibisce l’apertura di Kebab nel centro storico lasciando vuoti e inutilizzati una marea di fondi; dove sono chiusi tutti i luoghi di cultura quali: il Politeama per i noti crolli, il Teatro Animosi, dove pare che chiuda anche il Cinema Garibaldi, a gestione pubblica e con una programmazione di qualità, lasciando la città (sessantamila abitanti) senza cinema; una “città” deserta dalle 20 in avanti con un commercio ormai morto ed una vita sociale inesistente; una “città” in mano alle lobby del marmo che scandiscono il tempo di chi la vive, una “città” che, nonostante ospiti una delle Accademie delle Belle Arti più rinomate d’Italia per il corso di scultura non offre nessuna opportunità agli artisti; una “città” che lascia in degrado nel suo unico parco (“la Padula” a due passi dal centro storico) opere in marmo dei più grandi scultori contemporanei quali: Dani Karavan, Ian Hamilton Finlay, Robert Morris, Claudio Parmigiani, Luigi Mainolfi, Mario Merz, Sol Le Witt  (recentemente scomparso che ha lasciato a Carrara la sua unica opera in marmo). Carrara è una “città” che non comprende più che lo spazio pubblico è lo spazio del cittadino! Che non vuole capire che il fascino e la bellezza delle città sono proprio l’espressione e le sfumature dell’agire delle persone che ci vivono, delle relazioni sociali che può favorire, della mescolanza di comportamenti e gruppi sociali differenti, delle situazioni che si creano e le potenzialità dello sfruttamento dello spazio fisico, trascendendo in qualche modo la limitatezza della funzione per cui uno spazio urbano è stato concepito.

Da qui l’idea di insediarci in un’ Area Blu a pagamento in pieno centro città. Pagando infatti il pedaggio, si diventa a tutti gli effetti padroni temporanei di quella porzione di suolo, aderendo e facendo proprio il principio base che un parcheggio non debba essere necessariamente destinato ad un’automobile, bensì che sia potenzialmente utilizzabile anche come spazio espositivo. Nasce cosi ZTL, ovvero l’idea di portare le arti in strada, senza filtri nè mediazioni, utilizzando il contesto urbano come sfondo, attraverso un progetto di allestimento complessivamente unitario a cui possa aderire chiunque abbia la volontà e la possibilità di farlo: fotografi, performers, pittori, scultori, writers, etc …

L’intenzione è quella di creare un’occasione nella quale possa nascere un libero confronto tra la città, gli artisti e il pubblico, scambiandosi idee e trascorrendo un pomeriggio in modo decisamente diverso dal solito.

Diamo vita ad un’azione eloquente che nasce dal basso, promuoviamo la riappropriazione dello spazio urbano da parte delle persone, così da ridiventare un luogo di libera espressione e di incontro.

Il paradosso è vivere in una società senza socialità.

1 euro e 50 all’ora?!


Potrebbe essere una coincidenza il fatto che stanotte mi sono sognato un concerto dei CRUNCH, con un pogo selvaggio e il cantante che si rotolava in terra mentre un attimo dopo ero con il mio amico Damiano davanti al banchetto della band torinese a cercare di capire se comprarci questo, quel disco o la maglietta con sopra disegnate due mani che tenevano una maglietta bianca??? mah! Fatto sta che poco dopo..(vai a capire quanto!) dal dormiveglia sento la mia cara vecchia zietta urlarmi “GERMANOOO Il POSSTINO!!!” Con gl’occhi ancora appiccicati firmo, ritiro il pacco e lo apro:

TORINO HARDCORE + CRUNCH: un film di Andrea Spinelli

Il film documentario racconta attraverso le voci e le facce dei protagonisti di quel periodo la “scena” punk hardcore della Torino dei primissimi anni novanta, figlia diretta dell’esperienza punk anni ottanta di gruppi seminali come: Nerorgasmo, Declino, Panico, Negazione e  delle occupazioni di spazi e luoghi poi diventati storici come El Paso. La realtà della città metropolitana, ben lontana dalla Torino da bere della movida che ti offriva invece del divertimento a pagamento solo i tentacoli del disagio e  della noia mentre tutt’ intorno c’era un paesaggio fatto di fabbriche e palazzoni grigi. Cio’ che viene messo in luce è un tipo di esperienza nata principalmente dall’urgenza di suonare, di comunicare qualcosa, di prendersi la propria indipendenza attraverso l’occupazione e l’autogestione di spazi dove condividere e far coinvogliare esperienze diverse, di fare tutto e subito, senza compromessi. Suonare è il punto di partenza, senza troppi mezzi ne impostazioni accademiche, senza soldi , per il gusto di farlo, di provare a fare qualcosa di tuo, di gridare e di divertirsi, di fare casino ma anche di diffondere materiale autoprodotto, dai dischi alle fanzine cartacee, diffondere idee, alimentare un processo che rema contro l’omologazione dettata dall’alto e che si esprime in maniera differente. Partendo dai luoghi di aggregazione i protagonisti dei gruppi di quel periodo (Crunch, Arturo, Bellicosi, COV, Rotten Brain, Frammenti, Macello Comunale, Fichissimi, Mucopus..) nelle loro interviste ci spiegano come quel fermento avesse una carica positiva intrinseca, uno spirito libero che univa le persone e che creava una condivisione di esperienze che ando’ a delineare un vero e proprio “stile” musicale di hardcore. In un periodo storico dove non esisteva ancora internet e i cellulari, si riuscivano comunque ad organizzare concerti e tour europei e si registravano demo e dischi (soprattutto grazie allo studio Acqualuce che firmo’ delle vere e proprie pietre miliari del punk italiano).

L’imperativo era andare al nocciolo della questione, spaccare i culi, poca moda ma tanta sostanza, fare le cose perché se ne sente davvero il bisogno, farle magari alla cazzo di cane, ma farle. El Paso era il punto di riferimento, la fucina musicale, “non c’erano generi e sottogeneri, modalità, veterovegani e tutte le minchiate varie..era una roba un po’ più spartana, erano tutti buttati in mezzo a quella scena, c’era quella scena e benvenuti signori!”

Consigliatissimo ai giovani punk e anche a quelli piu’ “vecchi”!!!

All’interno oltre al DVD (55 min) trovate la demo, gli album “Doping” e “Bubba Bubba Bubba!” dei CRUNCH e “Mucopus” dei MUCOPUS

12 euro – per averlo potete scrivere qui: crunchtorino@gmail.com


 

Legére: Partiamo dal principio,perché il nome Merkawa?

Merkawa: E’ un nome di origine ebraica… In realtà cercavamo un nome che finisse con una vocale, ma non fosse italiano. Non ci siamo curati del significato, ci sembrava suonasse bene, eravamo giovani. Abbiamo pensato più volte di cambiarlo, ma ormai non possiamo più modificare il nome sulla pagina di facebook, ahimè.

L: Avete da poco fatto uscire il vostro primo Lp..volete parlarne un po’ ai lettori di Legére?

M: “Merkawa” è il risultato di due anni di composizione, prove, scazzi… E’ sicuramente un lavoro più spinto, più diretto e più cupo del nostro EP precedente (“Lazzaro”, 2009). Il disco si compone di  otto tracce le cui tematiche spaziano da rapporti di coppia un po’ malati, delusione per amici e fidanzate “legère”, insonnia, monotonia in La Spezia city, ecc…. E’ stato registrato nell’Agosto 2011 presso il Sonik Studio di Bottagna (SP) da Diego Petrucci. Il mixaggio è stato forse il momento del lavoro più entusiasmante perchè siamo riusciti ad ottenere il suono che volevamo grazie alle idee nostre e di Diego, eletto produttore artistico, ma non diteglielo. Si può dire che sia stato un lungo lavoro a dieci mani. Tuttavia è stato anche un parto, a momenti frustrante, infatti dopo due mesi di “Diè, aggiusta n’attimo qui”, “Diè, togli il riverbero…”, “Diè, metti il riverbero…”,  “Diè, la voce più bassa!”, il nostro Diego disse di volerla fare finita con la musica. I disegni in copertina e all’interno sono vecchie tavole di Nicola Perucca, che il Perru ha trovato nel cassetto di un vecchio mobile. Quindi procuratevi “Merkawa” dei Merkawa o ve ne pentirete.

L: Ci sono dei gruppi da cui avete tratto ispirazione che sentite “vicini” come sonorità e se si quali?

M: Per quanto riguarda i gruppi del passato ci ispiriamo per lo più alla scena indie/post-hardcore/emo americana degli anni ‘90, gruppi come Fugazi, Jesus Lizard, At the Drive-in, Drive like Jehu e sicuramente dobbiamo molto al movimento post-punk/new wave preso male inglese degli anni ‘80. Tuttavia ognuno di noi porta nelle canzoni un po’ dei propri ascolti personali, della propria spiritualità.

L: Sicuramente avrete come tutti i rockers del nuovo millennio una cartella nel computer o un hardisk pieno zeppo di musica con tanto di discografie, album seminali e spazzatura varia, quali ascoltate? A questo proposito secondo voi ci sono delle differenze nel modo di ascoltare i dischi e la musica in generale rispetto ad un periodo (quello del vinile,cassetta,cd) in cui c’era un rapporto forse più stretto rispetto alla fisicità stessa del supporto?

M: Ovviamente, siamo pieni di tutto un po’, ma poi finiamo per ascoltare sempre i dischi che ci piacciono di più, che poi sono anche quelli che ci compriamo. Per quanto riguarda il formato, al di là della qualità migliore dei supporti “fisici” rispetto ad mp3 e affini, tenere in mano un disco è sicuramente più  appagante. E’ il primo passo verso il feticismo.

L: Torniamo alle canzoni del vostro disco, come avviene la loro composizione e come scrivete i vostri testi?

M: Non abbiamo uno stile compositivo “universale”. Di solito i pezzi nascono in sala prove, vengono sviluppati da un riff di chitarra, un arpeggio, un pattern di batteria, un giro di basso…Se riscuote successo, ognuno lavora sul pezzo molto personalmente e con grande libertà. I testi sono tutti scritti dal Perru, il più grande poeta decadente della storia, nelle notti di tempesta.

L: Siete EMO?cosa significa secondo voi sentirsi/suonare EMO?

M: Nel 1986 durante un concerto degli Embrace, Ian MacKaye disse: “…“Emocore” è la cosa più stupida che abbia mai sentito in vita mia…”. Diciamo che non crediamo nelle etichette di genere, semplicemente diciamo di fare “emocore” perchè è quello che più sentiamo vicino al nostro suono, alla nostra “attitudine”, ai risvoltini dei nostri pantaloni e alle nostre Vans. E poi fa figo e va di moda.

L: Cosa pensate della droga? Ne fate uso, fate distinzioni particolari?

M: Ti ringraziamo per la domanda, è un argomento che ci sta molto a cuore.

L: Avete presentato il vostro disco al csoa Rda May Day, è stato un caso o ci sono dei motivi particolari?

M: No, sicuramente non è stato un caso, siamo tutti e quattro legati al May Day. Per tre di noi la primissima esperienza live è stata proprio lì, ci erano appena venuti i baffetti. Oltretutto è l’unico posto che ci ha dato e ci da l’opportunità di organizzare i concerti con i gruppi che preferiamo, gestendoci come meglio pensiamo la faccenda (ingressi, rimborsi ai gruppi, ecc…). Con questo non vogliamo togliere nulla agli altri locali di Spezia, nei quali abbiamo suonato e suoniamo sempre volentierissimo.

L: La Spezia è una città con un discreto numero di bands, avete dei rapporti di amicizia con qualcuna in particolare? Vi sentite parte di una scena musicale o viaggiate in solitaria?

M: Noi crediamo veramente che alla Spezia ci sia un grande numero di band di ogni genere validissime, composte da persone spesso ricche di talento e umiltà, anche se non ci facciamo mancare gli autoproclamati “reucci”o “capetti della scena”, che fanno un po’ tenerezza a tutti. Possiamo dire di essere in buonissimi rapporti con buona parte delle band di Spezia, ci si ritrova ai concerti e ci si gasa assieme, ci si supporta a vicenda e spesso ci si frequenta  anche al di fuori del contesto musicale. Quindi, si, ci sentiamo parte della scena spezzina.

L: Se una grossa major vi offrisse (per ipotesi) un contratto milionario che vi desse una buona sicurezza economica, concerti grossi, copertine di riviste, groupies, passaggi in radio e televisione.. sareste disposti a cambiare radicalmente la vostra musica a favore di fama e successo?

M: Non ci dispiacerebbe campare di musica, fare un sacco di soldi, essere circondati da groupies, andare su mtv, vestirci come i Modà, avere tutto ciò che vogliamo nei camerini e un giorno diventare più ciccioni di adesso, ma se questo volesse dire cambiare totalmente il nostro genere e il nostro approccio probabilmente diremmo di no. A meno che non ci assicurino un duetto con Vasco.


Maggio 

Sabato 12

D.I.Y. Yeah! VII edizione

Festival dell’autoproduzione

Sabato 19

Alligator Gar

“Country Corpses” Release Party

Sabato 26

Stage Diving Fest Sucks

Don’t follow it!

 

Giugno

Sabato 9

Noise Festival

Sabato 16

Concerto HC


altrimenti noto come il post segnaposto (da cancellare quando si posteranno gli articoli veri!)

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